Il termine “tortura” sembra non appartenere a prima vista al nostro ordinamento giuridico.
Se ciò è vero da un punto di vista formale (infatti nessuna norma punisce espressamente il delitto di tortura), non lo è però sul piano sostanziale.
È possibile, infatti, ricostruire il sistema in termini compatibili con la normativa sovranazionale e giungere a conclusioni diverse.
La condotta di “tortura”, sebbene non sia espressamente qualificata dal legislatore nazionale, esprime un concetto entrato nel bagaglio del nostro ordinamento attraverso le fonti sovranazionali.
Pertanto, nonostante non sia formalmente ricompreso tra i reati indicati nel nostro codice penale , tuttavia il termine “tortura” può comunque essere utilizzato per descrivere un fatto-reato in maniera più efficace di quanto sarebbe possibile con il richiamo ai numerosi titoli dei reati che potrebbero descrivere condotte analoghe (maltrattamenti, sequestro di persona, ecc.).
La parola “tortura”, che pure non fa parte del lessico del codice penale italiano, fa parte dell’ordinamento internazionale, definisce fatti giuridicamente rilevanti ed esprime una complessità di eventi che andrebbe perduta qualora si facesse ricorso a fattispecie di minor disvalore giuridico-penale.
La norma di riferimento per inquadrare la condotta di “tortura” è l’art. 3 Cedu (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo), firmata a Roma il 4-11-1950 e ratificata con L. 848/1955, la quale stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Inoltre, con la L. 498/1988 l’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York il 10-12-1984, il cui art. 1 stabilisce che il termine “tortura” indica, ai fini della Convenzione stessa, qualsiasi atto mediante il quale un pubblico ufficiale infligga intenzionalmente a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto commesso o che è sospettata di aver commesso, di intimorirla, di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, nonché per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione.
La ratifica, da parte del nostro Paese, della Cedu (L. 848/55) e della Convenzione di New York del 1984 (L. 498/88) ha dato ingresso, nell’ordinamento italiano, alla parola “tortura” e al concetto ad essa sotteso.
Occorre però osservare quanto finora affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Dall’esame delle varie sentenze europee sul tema si ricavano una serie di parametri applicativi.
Anzitutto, nella “sentenza Irlanda c. Regno Unito” (sent. 18-1-1978), la Corte ha enucleato le c.d. cinque tecniche vessatorie nel metodo di interrogatorio:
stare in piedi contro il muro, incappucciamento, sottoposizione a rumore, privazione del sonno e privazione di cibo e bevande.
Inoltre, ha stabilito i parametri per la definizione di trattamento inumano e degradante, consistendo, il primo, nell’infliggere un’intensa sofferenza fisica e mentale, e il secondo nel suscitare nella vittima un sentimento di angoscia, paura e inferiorità capaci di umiliarla e degradarla e di infrangere la sua resistenza fisica e morale.
Quanto alla differenza tra il trattamento inumano e degradante e la tortura, si tratta di una diversità quantitativa, poiché questa costituisce un’aggravata e deliberata forma di trattamento crudele, inumano e degradante.
Successivamente, con la “sentenza Raninen” (sent. 16-12-1997) la Corte ha precisato che è trattamento degradante l’ammanettamento senza giustificato motivo, in un contesto di arresto illegale, per la durata di circa due ore, anche se la vittima è stata umiliata ai propri occhi e non agli occhi di altri.
Nel “caso Selmount” la Corte europea (sent. 28-7-1999) ha considerato “tortura” colpire la vittima con pugni e calci, costringerla a inginocchiarsi e trascinarla per i capelli.
Tali comportamenti sono qualificabili come “tortura” anche nel nostro ordinamento: infatti, l’uso di tali parole svolge un’ineliminabile funzione pratico-concettuale, consentendo, se non una qualificazione giuridica dei reati, un’efficace sintesi concettuale per evidenziare la gravità di determinate condotte contrarie all’art. 3 Cedu.
Ciò detto, e ritornando a quanto stabilito dal nostro ordinamento giuridico, occorre osservare innanzitutto che l’art. 185 bis del codice penale militare di guerra punisce il militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani in danno di prigionieri di guerra o di civili o di altre persone protette.
Il reato di tortura, che il legislatore non ha ancora inserito nel codice penale, è però contemplato in quello militare di guerra, che rinvia implicitamente alla fattispecie di tortura descritta nelle fonti sovranazionali.
La mancanza, nel nostro ordinamento, di una norma non relegata al diritto penale militare ma estesa alla generalità dei consociati, non impedisce tuttavia di ravvisare la punibilità delle condotte di “tortura” descritte dalle fonti sovranazionali.
Infatti, gli obblighi internazionali in materia, come pure quanto prescritto in Costituzione, non impongono l’introduzione di un reato specifico di tortura ma, più semplicemente, prescrivono al legislatore nazionale di prevedere una sanzione penale per quelle condotte materiali riconducibili all’area semantica della tortura, anche se i titoli di reato siano riferiti ad altre tipologie delittuose.
Da questo punto di vista l’ordinamento penale italiano sembra già allineato al divieto di tortura previsto dalle fonti internazionali, contemplando una sufficiente batteria di norme repressive:
maltrattamenti (art. 572 c.p.), percosse (art. 581 c.p.), lesioni volontarie (artt. 582, 583 e 585 c.p., con pene che possono superare i 10 anni di reclusione), ingiurie (art. 594 c.p.), riduzione in schiavitù (art. 601 c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), arresto illegale (art. 606 c.p.), indebita limitazione di libertà personale (art. 607 c.p.), abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (art. 609 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), minacce (art. 612 c.p.) e stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.).
In particolare, l’art. 572 c.p. prevede, nelle forme più gravi, una pena fino a 24 anni di reclusione.
Il reato si configura anche nell’ambito di rapporti parafamiliari, caratterizzati da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia il quale, a sua volta, esercita il potere direttivo o disciplinare rendendo ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo (così Cass. 24057/2014).
In questa prospettiva allargata il delitto può essere commesso anche dagli agenti di polizia in caso di reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia (Cass. 30780/2012).
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