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L’arduo cammino processuale per rivendicare il risarcimento del danno da mobbing.

“Mi piace lavorare”, un film del 2003 diretto con stile asciutto ed immediato da Francesca Comencini e magnificamente recitato da Nicoletta Braschi, è un’efficace rappresentazione di quello che oggi rappresenta il mobbing: vessazione reiterata, oppressione della vittima, soffocamento della professionalità e, prim’ancora, della personalità del singolo lavoratore.

L’ottima Nicoletta Braschi esemplifica mirabilmente cosa è il mobbing e la drammaticità di chi, purtroppo, ne rimane vittima.

Fenomeno tanto prorompente a livello psico-fisico, quanto labile dal punto di vista del preciso inquadramento nelle aule di Tribunale, il mobbing, sciaguratamente, sta sempre più assumendo caratteri di stabilità e di permanenza sui luoghi di lavoro.

La crisi stagnante, economica e sociale, in uno con il depotenziamento della voce dei lavoratori, sempre più in balia di dinamiche loro malgrado imposte da un mondo dell’impresa a sua volta strozzato dalle note quotidiane difficoltà economiche, pongono chiunque giornalmente frequenti contesti lavorativi, in uno stato di potenziale pericolo di vedersi sopraffatti, inglobati, annientati da un atroce meccanismo degenerativo.

Quali comportamenti possono essere qualificati come “mobbing”?

Condotte vessatorie verso la persona del dipendente, atti di denigrazione e di offesa, atteggiamenti volti a discriminare un lavoratore rispetto al resto del team di lavoro, assegnazione di mansioni non rispondenti alla qualifica ricoperta, o palesemente degradanti o, peggio ancora, non assegnazione di compiti specifici, e così pure rimproveri disciplinari ingiustificati, improperi ed ingiurie gratuite, persino atti di derisione pesante, di scherno malizioso, di dileggio, d’intolleranza o di sopraffazione (per motivi di sesso, di razza, di religione, di cultura e per mille altri motivi), costituiscono, tra i tanti, un microcosmo di comportamenti che, ripetuti nel tempo, al di là della portata antigiuridica della singola condotta, destabilizzano in modo continuo ed incessante la persona del lavoratore, fiaccandone la socialità, la serenità personale, l’umanità, oltre che la sfera professionale, e facendolo cadere in uno stato di prostrazione, con incombente rischio di sfociare nella patologia psicofisica.

Forse la rivendicazione giudiziale di danni derivanti da condotte mobbizzanti, poste in essere dai superiori gerarchici o anche da colleghi pari grado, è uno dei compiti più ardui per un avvocato, al quale il lavoratore si affida, superando, con gran dolore, lo scoglio dell’immobilismo e della paura nel denunciare i fatti.

Certo non possono esser sottaciuti il calvario intimo e lo stato di angoscia in cui versa la vittima di mobbing, per la quale già la richiesta d’aiuto, l’emersione dal sommerso, l’esternazione del proprio strato di prostrazione, rappresentano una tappa positiva, volta a prender piena coscienza della criticità, sollecitando dapprima il conforto delle persone più care, successivamente il confronto con professionisti di fiducia.

Che supporto fornire ad una vittima di mobbing?

L’avvocato al quale si affida il lavoratore mobbizzato dovrà a sua volta tessere una stretta collaborazione con il personale di sostegno psicologico e medico. In questo contesto, la presenza di presidi sanitari garantiti dalle strutture pubbliche costituisce per il lavoratore una tutela di rilievo e, pur con le difficoltà dovute ai tagli sempre più onerosi nel settore pubblico sanitario, va segnalata con apprezzamento la circostanza che tuttora molte unità sanitarie locali possono offrire un sostegno concreto (presidi “antimobbing” dislocati sul territorio), sia per il tramite degli uffici di medicina del lavoro, sia per il tramite dei centri di salute mentale. In tale ambito, dovrà procedersi verso un esaustivo ed oggettivo inquadramento della storia del lavoratore, enucleando con puntualità le singole condotte mobbizzanti subite e collegando le stesse alle sofferenze in cui, purtroppo, è sfociata l’incolpevole vittima.

Dunque, il percorso di sostegno medico e psicologico del lavoratore deve seguire in parallelo il percorso legale.

Quali strade legali percorrere per tutelare il lavoratore mobbizzato?

In quest’ottica, laddove siano necessarie tutele d’urgenza, la vittima di mobbing verrà consigliata dall’avvocato nel dar corpo a circostanziate denunce sugli specifici fatti oggetto di eventuali condotte che possano essere inquadrate come penalmente rilevanti.

In parallelo, l’avvocato può dar seguito ad azioni dinanzi al Tribunale del Lavoro che prevedano tutele d’urgenza (non peregrine sono le ipotesi di inibitorie immediate nei confronti del datore di lavoro, al fine di inibire in modo sollecito condotte integranti vessazioni inique poste in essere a danno del dipendente).

Non sia però sottaciuto che l’agone giudiziale rappresenta una scalata nient’affatto agevole per lo studio legale che affianca il lavoratore mobbizzato, il quale richiede il ristoro giudiziale conseguenziale alla lesione dei propri diritti.

In numerosi casi il processo per mobbing si affianca ad un’impugnativa per illegittimo licenziamento, oppure ad un’istanza giudiziale di assegnazione alle mansioni effettivamente corrispondenti al proprio inquadramento contrattuale, o, ancora, ad un’azione di recupero di crediti da lavoro subordinato non pagati.

In ogni caso, la domanda risarcitoria per danno da mobbing è una domanda autonoma e richiede un risarcimento indipendente rispetto ad eventuali ulteriori voci di domanda formulate all’interno del giudizio.

E’ facile fornire la prova del mobbing?

Sia evidenziato che fornire la prova del mobbing è arduo, non impossibile, ma neppure operazione immediata e rapida: non solo è onere del lavoratore che agisce in giudizio dare la prova di ogni singolo evento descritto e portato all’attenzione del Magistrato del lavoro, ma egli deve altresì dimostrare la continuità degli eventi, posti in essere con carattere persecutorio, in modo metodico, sistematico, come una sequenza prolungata nel tempo e con un preciso intento, da parte di chi quelle condotte ha posto in essere, di cagionare un danno nei confronti del dipendente.

Ulteriore onere giudiziale in capo al lavoratore è quello di dare la prova della lesione al bene salute, alla personalità ed alla dignità del dipendente, nonché dimostrare il nesso di eziologico (causa-effetto) tra le singole condotte ed il denunciato danno psico-fisico.

Soltanto se il lavoratore ha fornito la prova positiva di tutte le suddette circostanze, gli oneri probatori nel processo si spostano verso la persona del datore di lavoro: posto dinanzi ad un insieme di condotte mobbizzanti circostanziate e puntualmente provate nel tempo, il datore di lavoro ha l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno; dovrà altresì dimostrare al Magistrato che lo stato di afflizione e di sofferenza del proprio dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi.

In questo arduo percorso processuale, vanno dunque innestati da parte del lavoratore mobbizzato, tanti mattoncini (“onus probandi ei qui dicit incumbit”), che debbono formare e rendere granitico il convincimento del Giudice del lavoro, interprete delle carte e delle risultanze di causa; su tali basi, le prove documentali e le testimonianze costituiscono il conforto di cui il lavoratore deve servirsi, al fine di dimostrare la giustizia della propria domanda davanti al Tribunale.

Dar corso ad un iter risarcitorio per mobbing, che non preveda un idoneo corredo probatorio, rappresenta un atto quanto mai avventato e lontano da principi di cautela e prudenza.

Avv. Alessandro Milanetti

 

 

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Informazioni su Alessandro M

L'avvocato Alessandro M. è iscritto presso il Foro di Roma ed opera nel settore del diritto civile e del lavoro, assicurando attività di assistenza e consulenza legale qualificate presso i propri studi siti in Roma ed in Nettuno.

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