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Il concetto di Capacità Contributiva in Diritto Tributario

La nozione di capacità contributiva è tanto importante quanto tormentata.
Per definire il concetto è utile richiamare la formulazione dello Statuto Albertino, che faceva riferimento agli “averi” come indice di riparto. Gli averi costituiscono una ricchezza oggettivata, mentre il concetto di “capacità” denota un’attitudine a contribuire, che è una connotazione soggettiva.
Il passare dalla nozione degli averi a quella della capacità consiste nel passare da una visione oggettiva ad una visione soggettiva.
L’attitudine alla contribuzione consiste nell’attitudine soggettiva a far fronte con le proprie ricchezze al carico delle pubbliche spese.

Capacità Contributiva

capacità contributiva

In altri termini, la capacità contributiva corrisponde alla ricchezza connotata in senso soggettivo.
Alla luce di ciò, a parità di ricchezza (averi) non necessariamente vi è uguale capacità contributiva, perché questa dipende dalle condizioni soggettive di chi è chiamato alla contribuzione.
Ad esempio, un single che ha una ricchezza di 5000 euro mensili e due coniugi con figli con la stessa ricchezza non hanno la stessa capacità contributiva.
Occorre dunque che il sistema tratti fiscalmente in modo diverso i due soggetti, che non hanno capacità contributiva analoga, tramite strumenti specifici (es. detrazioni).
C’è un’altra implicazione di questo principio di differenziazione fra averi e capacità contributiva: prendiamo in considerazione un pensionato che guadagna 600 euro mensili di pensione.
Questo soggetto ha degli averi, dal punto di vista oggettivo, ma non si può dire che abbia una capacità contributiva.
La seconda affermazione che si può trarre dal concetto di capacità contributiva è che potrebbero esserci degli averi, ma potrebbe non esserci capacità contributiva, quando questi averi siano appena sufficienti a soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia (principio di tutela del minimo vitale).
Detto questo, si capisce che non tutti sono chiamati alla contribuzione allo stesso modo, cioè chi più ha più è chiamato a distribuire.
Emerge qui la dimensione solidaristica espressa dalla scelta lessicale “sono tenuti”.
Un problema che interessa i tributaristi è se l’affermazione costituzionale per cui esiste il limite della capacità contributiva come criterio di riparto possa fare sì che questo si possa considerare come limite massimo alla contribuzione.
Il legislatore tributario può pretendere qualsiasi prelievo o esiste un limite massimo dell’imposizione oltre il quale non si può andare?
Secondo la maggior parte della dottrina l’art. 53 cost. costituisce effettivamente un limite massimo, che deve essere rinforzato con altri elementi già presenti nella carta costituzionale.
Un primo baluardo a queste ipotesi di pressioni fiscali “espropriative” può essere il principio solidaristico, perché il concorso e la solidarietà non implicano e non possono portare alla negazione di se stessi.
Vi sono poi altre norme costituzionali rilevanti in proposito, come ad esempio l’art. 41 sulla libertà di iniziativa economica: se tutto ciò che è guadagnato con il lavoro deve essere versato allo Stato viene negata la libertà di iniziativa economica.
Inoltre l’art. 42 prevede un indennizzo in caso di espropriazione: se è previsto un indennizzo, allora atteggiamenti puramente appropriativi dello Stato nei confronti del singolo non sono legittimi.
Anche gli artt. 2-3 sono importanti, perché prevedono l’impegno dello Stato alla rimozione degli ostacoli di ordine anche economico che impediscono il libero sviluppo della personalità.
Quali sono però nel concreto questi limiti massimi?
Sul punto si è pronunciata la Corte Costituzionale tedesca, che ha affermato che il limite massimo alla contribuzione deve essere il 50%.
Il concetto di capacità contributiva presenta ulteriori implicazioni, ricche di conseguenze sulla legislazione tributaria e sul sistema tributario in generale.
In particolare, ricordiamo l’attualità e l’effettività della capacità contributiva.
Quanto all’attualità, si è detto prima che la capacità contributiva è un’attitudine soggettiva alla contribuzione e per essere tale deve essere presente nella disponibilità economica del soggetto nel momento in cui questo è chiamato a far fronte al prelievo.
Questa affermazione è messa in crisi dalla legislazione tributaria quando questa presenta i caratteri dello retroattività.
La normativa tributaria retroattiva si configura nelle ipotesi in cui il legislatore tributario introduce un obbligo di contribuzione che si fonda su presupposti realizzati nel passato.
Se il presupposto si è realizzato nel passato, è probabile che, nell’intervallo tra la realizzazione dello stesso e il momento del prelievo, la ricchezza si sia dispersa.
La norma tributaria retroattiva è per definizione una fattispecie a rischio, perché è possibile che incida su presupposti non più attuali.
La Corte Costituzionale si è pronunciata almeno in due occasioni, la prima del 1965, la seconda del 1995.
La prima sentenza riguardava l’imposta sull’incremento di valore delle aree fabbricabili, che quando fu introdotta fu applicata a incrementi di valore realizzati fino a 10 anni prima.
La Corte Costituzionale ha affermato che una retroattività decennale deve considerarsi illegittima, perché non è ragionevole ritenere che una ricchezza realizzata 10 anni nel passato sia ancora presente nel patrimonio del soggetto.
La seconda sentenza ha affrontato una fattispecie differente, ossia un’ipotesi di tassazione di redditi diversi, che colpiva le indennità di esproprio con una retroattività di 3 anni.
La Corte ha affermato che la retroattività triennale non presenta la stessa connotazione di quella decennale, perché si deve ritenere ragionevole che la ricchezza realizzata nel triennio precedente sia ancora presente nel patrimonio del soggetto.
Il ragionamento prosegue guardando alla tipologia di prelievo, che nel caso specifico colpiva le indennità di esproprio.
L’art. 67 del d. 917/1986 dice che sono tassati come redditi diversi le plusvalenze immobiliari.
La Corte ha osservato che, se le plusvalenze immobiliari sono tassabili, c’era una lacuna normativa nel non tassare le indennità di esproprio, perché sono pur sempre anch’esse plusvalenze immobiliari.
Se c’era una lacuna, era prevedibile che il legislatore l’avrebbe colmata – secondo la Corte – e allora non solo la retroattività era triennale, ma era anche prevedibile che l’imposizione sarebbe arrivata.
Questa sentenza ha ricevuto numerose critiche in dottrina, in particolare sul criterio della prevedibilità: tuttavia, la situazione di oggi, con riguardo alla retroattività, è ancora costruita su queste due sentenze.
Il prof. Marongiu, sottosegretario al Ministero delle Finanze nel 2000, sensibile al tema della capacità contributiva, non era disposto ad accettare la prassi del legislatore di adottare norme tributarie retroattive – molto frequente – e ha inserito una disposizione normativa in una legge fondamentale del diritto tributario (l. 212/2000, “Statuto dei diritti del contribuente”), che dice che le norme tributarie non possono essere retroattive.
Questa legge, all’art. 1, si autodefinisce “legge di attuazione costituzionale” (artt. 3, 23, 53 e 97 cost.).
Dunque il divieto di retroattività, secondo l’intenzione del legislatore statutario, sarebbe un’attuazione dell’art. 53 cost.
Il problema di questa legge è quello di essere, nella definizione di Falsitta, un “castello nei Pirenei”, in quanto legge ordinaria, per quanto si autoproclami legge di attuazione costituzionale e presenti clausole di autorafforzamento.
Lo Statuto del contribuente ha comunque una notevole importanza, in quanto strumento di controllo verso il potere politico.
Dal punto di vista giuridico, inoltre, essendo lo Statuto una legge generale, sarebbe irragionevole, a meno che non giustificata, una norma che contrasti con i principi dell’ordinamento tributario (tra cui anche l’irretroattività).
Il problema dell’attualità si pone anche con riferimento agli effetti che derivano dalla proiezione nel futuro della capacità contributiva del soggetto.
Ci sono disposizioni che prevedono che il soggetto sia chiamato alla contribuzione non in forza di presupposti già realizzati, ma in forza di presupposti che si realizzeranno nel futuro.
Questo problema è posto in particolare da due istituti: gli acconti di imposta e le ritenute d’acconto. In questi casi, infatti, il contribuente è chiamato a versare un tributo direttamente o per il tramite di un sostituto in relazione ad un presupposto che si realizzerà nel futuro ed in particolare alla chiusura del periodo d’imposta.
Il periodo di imposta è il periodo di commisurazione del prelievo, il quale sussiste in determinate fattispecie, come ad esempio l’imposta reddituale, che si calcola con riferimento ad un intervallo temporale (di regola l’anno solare).
In questi casi il soggetto è tenuto a versare acconti, commisurati ai redditi dell’anno precedente.
Potrebbero però verificarsi effetti distorsivi nel caso in cui il soggetto si trovi a non avere capacità contributiva nel periodo in cui deve versare gli acconti.
Esiste un sistema di restituzione degli importi versati in eccedenza in caso di acconti che superino la capacità contributiva del soggetto.
Si capisce però che quanto più questi due momenti si allontanano tanto più vi è rischio di pregiudizio al profilo dell’attualità della capacità contributiva: vi sono dunque casi in cui l’acconto può diventare una sorta di prestito forzoso.
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