La giurisprudenza e il nostro legislatore si trovano, pertanto, di fronte al rilevante problema di come approcciarsi ai reati commessi dagli immigrati in adesione alla propria cultura e religione: in particolare, ci si chiede se la motivazione religiosa e/o culturale in materia penale consentano comunque l’imputabilità per il reato eventualmente commesso oppure possa essere considerata una scusante (c.d. cultural defense), basata su errore o ignoranza della legge.
I reati culturalmente orientati: cosa sono e qual è la loro evoluzione giuridica
Le categorie criminose in cui, però, maggiormente si riscontra una motivazione religioso-culturale sono quelle relative alle più disparate tipologie di reati, quali i maltrattamenti in famiglia, i reati a tutela dell’onore, i reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, ecc.
In particolare, nei casi di maltrattamenti in famiglia, la giurisprudenza ha più volte sottolineato “ l’irrilevanza della cosiddetta ignorantia juris, pur letta nell’ambito interpretativo della Corte delle leggi, quando le condotte oggetto di valutazione si caratterizzino per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona quali riconosciuti ed affermati dalla Costituzione nazionale, che costituiscono la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano e il cardine della regola-mentazione concreta dei rapporti interpersonali.
Come insegnato dalla richiamata sentenza 46300/2008, tali principi costituiscono uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione nella società civile – di diritto e anche solo in fatto – di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” rispetto ai risultati ottenuti nell’ambito dell’affermazione e della tutela dei diritti inviolabili della persona in quanto tale, cittadino o straniero che sia” (così Cass. Pen., sez. VI, sent. 28 marzo 2012, n. 12089).
In tema di circoncisione rituale maschile, la giurisprudenza di legittimità ritiene che tale pratica, “per quanto semplice, interferisce comunque sulla integrità fisica della persona, comporta una manipolazione del corpo umano potenzialmente rischiosa per la salute e oggettivamente, pur in assenza di preventive finalità terapeutiche, è sostanzialmente un atto di natura medica (trattasi di vero e proprio intervento chirurgico), che non può essere affidato al libero esercizio di una qualsiasi persona, ma deve essere eseguito, di norma, da un medico, che è soggetto professionalmente attrezzato per assolvere tale compito”.
Infatti “L’individuazione dei parametri di valutazione del principio della scusabilità dell’ignorantia legis inevitabile, in difetto di una specifica indicazione del richiamato art. 5 cod. pen., non può che essere rimessa all’interprete, che deve fare leva, tenendo presenti le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale, su considerazioni sistematiche e funzionali più generali.
Il criterio di detta individuazione, per essere affidabile, non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell’agente l’ignorantia legis circa l’illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell’agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere dell’error iuris.
È certamente dato oggettivo incontestabile il difettoso raccordo che si determina tra una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e l’ordinamento giuridico del nostro Paese; non può tale situazione risolversi semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti” (cfr. Cass. Pen., sez. VI, sent. 24 novembre 2011, n. 43646).