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I reati culturalmente orientati: cosa sono e qual è la loro evoluzione giuridica

L’insediamento in Italia, a seguito di ingenti flussi migratori, di persone e comunità provenienti da Paesi dalla cultura e dalla religione differenti, sta creando vari problemi nell’applicazione delle nostre disposizioni penali che non solo spesso risultano essere sconosciute a coloro che vengono ad insediarsi nel nostro Paese, ma che in certi casi si rivelano anche contrarie a condotte che non vengono percepite nella loro illeceità penale nella religione e cultura di appartenenza di tali persone.

 La giurisprudenza e il nostro legislatore si trovano, pertanto, di fronte al rilevante problema di come approcciarsi ai reati commessi dagli immigrati in adesione alla propria cultura e religione: in particolare, ci si chiede se la motivazione religiosa e/o culturale in materia penale consentano comunque l’imputabilità per il reato eventualmente commesso oppure possa essere considerata una scusante (c.d. cultural defense), basata su errore o ignoranza della legge.

I reati culturalmente orientati: cosa sono e qual è la loro evoluzione giuridica

reati culturalmente orientati

  Nel nostro ordinamento esiste la legge n. 7 del 2006 (“Disposizioni concernenti la prevenzione ed il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”) che prevede, al suo art. 1, una disciplina che “detta le misure necessarie per prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine”.
L’ art. 6 della menzionata legge stabilisce, inoltre, l’introduzione nel nostro codice penale dell’art. 583-bis, a mente del quale “Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da quattro a dodici anni.
Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo.
Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro.
Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia”.

Le categorie criminose in cui, però, maggiormente si riscontra una motivazione religioso-culturale sono quelle relative alle più disparate tipologie di reati, quali i maltrattamenti in famiglia, i reati a tutela dell’onore, i reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, ecc.

In particolare, nei casi di maltrattamenti in famiglia, la giurisprudenza ha più volte sottolineato “ l’irrilevanza della cosiddetta ignorantia juris, pur letta nell’ambito interpretativo della Corte delle leggi, quando le condotte oggetto di valutazione si caratterizzino per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona quali riconosciuti ed affermati dalla Costituzione nazionale, che costituiscono la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano e il cardine della regola-mentazione concreta dei rapporti interpersonali.

Come insegnato dalla richiamata sentenza 46300/2008, tali principi costituiscono uno “sbarramento invalicabile” contro l’introduzione nella società civile – di diritto e anche solo in fatto – di consuetudini, prassi e costumi “antistorici” rispetto ai risultati ottenuti nell’ambito dell’affermazione e della tutela dei diritti inviolabili della persona in quanto tale, cittadino o straniero che sia” (così Cass. Pen., sez. VI, sent. 28 marzo 2012, n. 12089).

 Infatti “anche per i c.d. reati culturalmente orientanti vige il principio dell’irrilevanza dell’ ignorantia iuris, pur letta nell’ambito interpretativo della Corte delle leggi, quando le condotte oggetto di valutazione si caratterizzino per la palese violazione dei diritti essenziali ed inviolabili della persona, quali riconosciuti ed affermati dalla Costituzione, costituendo la base indefettibile dell’ordinamento giuridico italiano ed il cardine della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali” (così Cass. Pen., sez. VI, sent. 26 novembre 2008, n. 46300).

In tema di circoncisione rituale maschile, la giurisprudenza di legittimità ritiene che tale pratica, “per quanto semplice, interferisce comunque sulla integrità fisica della persona, comporta una manipolazione del corpo umano potenzialmente rischiosa per la salute e oggettivamente, pur in assenza di preventive finalità terapeutiche, è sostanzialmente un atto di natura medica (trattasi di vero e proprio intervento chirurgico), che non può essere affidato al libero esercizio di una qualsiasi persona, ma deve essere eseguito, di norma, da un medico, che è soggetto professionalmente attrezzato per assolvere tale compito”.

Infatti “L’individuazione dei parametri di valutazione del principio della scusabilità dell’ignorantia legis inevitabile, in difetto di una specifica indicazione del richiamato art. 5 cod. pen., non può che essere rimessa all’interprete, che deve fare leva, tenendo presenti le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale, su considerazioni sistematiche e funzionali più generali.


Il criterio di detta individuazione, per essere affidabile, non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell’agente l’ignorantia legis circa l’illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell’agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere dell’error iuris.

È certamente dato oggettivo incontestabile il difettoso raccordo che si determina tra una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e l’ordinamento giuridico del nostro Paese; non può tale situazione risolversi semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti” (cfr. Cass. Pen., sez. VI, sent. 24 novembre 2011, n. 43646).

 Quanto, invece, al neo-introdotto reato di mutilazione degli organi genitali femminili, non vi è ancora una costante giurisprudenza sul punto. Nella prima e recentissima pronuncia sul tema, il Tribunale di Venezia (sent. 14 aprile 2016) ha condannato per l’esercizio abusivo della professione medica e per il nuovo reato di cui all’art. 583-bis c.p. in concorso tra loro i genitori di una bambina e una donna nigeriana che ha materialmente provocato l’infibulazione sulla minore.
La motivazione culturale della religione dei genitori (tenute “sulla base di forti spinte culturali e radicate convinzioni etniche”), è stata comunque presa in considerazione quale circostanza attenuante in sede di determinazione della pena da infliggere: tuttavia, la decisione è stata poi completamente ribaltata in sede di appello, avendo la Corte di Appello di Venezia assolto i genitori “perché il fatto non costituisce reato”.
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